Dopo 30 anni, il sindacato in rivolta?

Dida: il peccato originale.
C’è chi non ha apprezzato l’ironia dell’articolo Vota “P.D.P.P. e P.”, però, se è pur vero che in Italia non v’è partito che ambisca a rappresentare il mondo del lavoro dipendente, a suo nome e per suo conto vi è ancora chi agisce nella società. Ed è il sindacato. Due sindacati, Cgil e Uil hanno proclamato uno sciopero generale per il 29 novembre. Dovrebbe -è auspicabile- reggersi e consolidarsi  su due questioni principali: la “questione salariale” e la “questione fiscale”, due facce della stessa medaglia, dalle quali discendono poi la crisi dell’occupazione e l’irreperibilità di risorse nella  sanità, nella scuola, nei servizi pubblici  eccetera.
 
Ebbene, per queste questioni, per queste crisi sociali, per questa stagnazione salariale, per questo declino economico italiano, il sindacato ha grosse responsabilità. L’Italia è l’unico Paese Ocse in cui in trent’anni, a partire dal 1990, i salari reali siano diminuiti: non quelli nominali bensì quelli reali, in rapporto all’aumento dei prezzi, all’inflazione. La contrazione del salario medio annuo è stata del -2,9% contro l’aumento del +31,1% della Francia e del +34% della Germania.
 
Lo sciopero è, giustamente, contro il governo Meloni (aumento dei prezzi del 17% contro l’aumento dei salari del 5,7%, alle stelle i profitti e le rendite), però il macigno che oggi pesa sulle spalle di lavoratori cominciò a gravare tre decenni fa. Il “peccato originale”, porta la data 1992: governo Amato, tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni. E quell’“accordo sul costo del lavoro”: abolizione della “scala mobile”, rinuncia alla contrattazione, impegno alla moderazione salariale a oltranza con riferimento alla “inflazione programmata”. Insomma, la cosiddetta “concertazione” fu il disarmo unilaterale del sindacato, la riduzione certa del tenore di vita dei lavoratori, in cambio di promesse generiche e in malafede per i successivi governi. Grazie a questa politica dei redditi, l’exPCI veniva accolto dal padronato nell’area di governo, ma veniva lacerato in profondità il rapporto già in crisi tra sindacati e lavoratori. Le critiche a questa scelta furono durissime già allora. Si ricordano i bulloni ai comizi sindacali e gli “autoconvocati”. La storia successiva del centrosinistra conferma licenziamenti di massa, privatizzazioni pubbliche, spostamento della ricchezza verso rendite e profitti e  diseguaglianza dei redditi. A maggior ragione del centrodestra.
 
Il circolo vizioso economico e sociale, oggi, è enfatizzato dalla  riduzione del potere contrattuale del sindacato, dall’allargamento del precariato, dall’involuzione produttiva verso settori a basso valore aggiunto (turismo, ristorazione e servizi alla persona), bassa innovazione e competizione basata su contenimento dei costi e intenso sfruttamento. E si drammatizza nei soggetti più fragili: minori in famiglie a basso reddito, persone anziane e con disabilità, migranti, penalizzazione delle donne nel mercato del lavoro…

Questi bambini pensano che sia genocidio.

44.000 uomini, donne e bambini, non pensano più. Amen. Ma questi tre bambini pensano che sia genocidio, e con loro intere future generazioni di palestinesi. E noi con loro. E con noi l’umanità tutta. Invece Benjamin Netanyahu dice che non è genocidio questo israeliano, bensì sono genocidio i 1.200 israeliani uccisi il 7 ottobre 2023 da Ḥamās. Cioè il genocidio non si misura in quantità bensì in qualità. Di conseguenza, dice Bibi, che lui non è criminale di guerra  da  catturare, come vorrebbe all’unanimità la Corte penale internazionale dell’Aia, per “crimine di guerra con uso della fame come metodo bellico; e crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti inumani”; non  solo autorizzato attacchi indiscriminati contro civili: li hanno anche, intenzionalmente, ridotti alla fame, alla sete e alla morte per mancanza di cure”; “privato la popolazione civile a Gaza di oggetti indispensabili per la loro sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicinali e forniture mediche, carburante ed elettricità”.
 
Come si fa, dice Bibi, a confronto dell’olocausto di ebrei a  Auschwitz o Dachau, definire genocidio  appena  2,3 milioni di palestinesi internati per decenni nel campo di concentramento a cielo aperto di Gaza? definire genocidio l’invasione a 2,3 milioni di palestinesi con appena 1,9 milioni di sfollati (peraltro tutti complici di Hamas bambini compresi) necessariamente devastando da un anno quartieri, ospedali, moschee e chiese cristiane, scuole, università e infrastrutture essenziali? definire genocidio appena 44.000 (finora)  uccisi anche se, inevitabilmente, con la più ampia percentuale di morti fra zero  e 14 anni? Mica valgono un rabbino a  Abu Dhabi (moldavo ma pur sempre ebreo).
 
Dunque, dice Bibi, considerato tutto ciò, è vergognoso che la Corte penale internazionale dell’Aia ce l’abbia con lui, anzi con Israele, certamente non perché autori di massacri e torture, bensì per antisemitismo. Chi è contro Israele, Papa compreso, è automaticamente antisemita, mosso unicamente da odio razzista. Di ceppo semitico sono sia gli ebrei che i palestinesi, però, dice Bibi, il genocidio esiste solo se commesso contro il popolo eletto da Dio (Yahweh e non Allāh), incarnato nella Grande Israele, dal Giordano al Mediterrraneo.    
 
Eppoi, dice Netanyahu, noi, Israele e Stati Uniti, ce ne sbattiamo dell’ONU: sono 49 i veti Usa alle bozze di risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU relative a Israele. Noi neppure riconosciamo la giurisdizione della Corte penale internazionale dell’Aia, dei 124 Stati che la compongono. Fra cui l’Italia. Il cui governo sempre si genuflette a USA e dunque a Israele: Salvini rifiuta l’obbligo arrestarmi e mi invita in Italia a braccia aperte,  sfidando le piazze… “antisemite”.