Va forte l’economia di guerra della Meloni.

I governi europei tornano a casa dal vertice NATO con l’invio degli F16 a Kiev, l’obbligo di contribuire alla donazione di altri 40 miliardi di armi al governo ucraino e con un nuovo fardello di missili statunitensi a lungo raggio, capaci di colpire nel cuore della Russia, da installare in Europa, facendone diventare così un bersaglio nucleare le proprie capitali, a cominciare dalla Germania, con un balzo all’indietro agli anni ’80 del secolo scorso. 
Anche il governo italiano rappresentato da Giorgia Meloni, oltre all’impegno immediato di trovare un miliardo e settecento milioni di euro di ulteriori armamenti da consegnare al governo ucraino, ha rinnovato l’impegno – in verità già preso dal parlamento italiano nella scorsa legislatura con un voto quasi unanime – di portare velocemente al 2% del PIL la spesa militare strutturale italiana. Ossia di aumentarla dai circa 28 miliardi di euro attuali ai circa 40 miliardi all’anno, a cominciare da un nuovi programmi pluriennali di acquisto di cacciabombardieri per 7 miliardi e mezzo e di carri armati per 8 miliardi. Si tratta – nè più nè meno – di una riconversione al contrario: tagliare ulteriormente e drasticamente risorse a scuola, sanità università welfare e trasferirle all’industria bellica, nazionale e internazionale. Una vera e propria economia di guerra, che anticipa il dispiegamento dei nuovi missili statunitensi anche in Italia, che già ospita decine di testate nucleari USA.