Le società petrolifere hanno ingannato, prima colpevolizzando i consumatori, poi promettendo che se l’usato fosse stato raccolto in appositi contenitori avrebbero risolto il problema col riciclo. In effetti gli imballaggi riciclati vengono usati come combustibile secondario nei cementifici, in alternativa al combustibile fossile, però la combustione ha un forte impatto ambientale. Vaschette e pellicole non possono sempre essere riutilizzate; e quando il riciclo funziona, la plastica prodotta ha perso 10 per cento delle sue caratteristiche, come l’elasticità, e se si ripete la perdita si rinnova (fenomeno del downcycling) e dopo un po’ non è più utilizzabile, restando plastica, e finisce il ciclo del riciclo. Non c’è più guadagno. I costi della raccolta, smistamento e riciclo sono ingenti. Meglio produrla col petrolio: i prodotti petrolchimici – plastica, fertilizzanti, imballaggi, abbigliamento, dispositivi digitali, pneumatici, apparecchiature mediche – sono i principali motori della domanda di petrolio.
Poi ci sono, ma più costose, le bioplastiche degradabili che si ottengono da fonti rinnovabili, mais, tapioca, patate, canna da zucchero, oli vegetali, alghe eccetera. Dovrebbero essere anche “compostabili”, che vuol dire che si trasformano in compost, concime, e allora non devono assolutamente essere messi nella plastica, ma nella raccolta dell’umido.
Insomma, se non vogliamo che nel 2050 ci sia in atmosfera più diossina da incenerimento che ossigeno, e negli oceani più plastica che pesci e biomassa marina, bisogna ridurre l’uso della plastica. In particolare dove già ci sono valide alternative: imballaggi inutili, come le monoporzioni di frutta e verdura, o succhi da bere, bicchierini, vaschette di affettati, surgelati, eccetera eccetera.