Smettiamola di usare, parlando della strage del lavoro, l’espressione “morti bianche”. Perché l’espressione morte bianca evoca l’immagine di un esodo incruento, di una morte senza spargimento di sangue, in qualche misura una morte “senza autore”. E invece queste sono morti spaventosamente sanguinose, con corpi dilaniati, bruciati, schiacciati. E con responsabilità spesso taciute, inconfessate e inconfessabili, quasi mai seguite da sanzioni adeguate (nessuna tragedia, né quella della Thyssen, né quella dell’Eternit, né quelle, seriali, dell’Ilva di Taranto hanno visto i rispettivi processi concludersi con condanne men che simboliche). Dovremmo definirle “crimini di pace”. Morti che, per il loro numero, e per alcuni aspetti della catena di cause che le hanno provocate, sono simili a quelle dei conflitti bellici. Per i numeri: Carlo Soricelli, che dopo la pensione da metalmeccanico si è dedicato alla cura di un sito web – l’ “Osservatorio nazionale di Bologna” il quale, unico in Italia, monitora tutti i morti sul lavoro dal 1° gennaio 2008 registrando i morti per giorno, mese e anno della tragedia, per identità, età, professione, nazionalità – calcola che da allora le vittime sfiorino le 20.000.